Marisela Ortiz davanti alle croci rosa della ragazze uccise
Ciudad Juárez, Messico, è oggi considerata una delle città più violente del pianeta. Assurta alla cronaca internazionale per l’ormai famigerato caso del feminicidio, Juárez – come la chiamano in Messico – è oggi uno degli scenari di maggiore scontro della cosiddetta “guerra al narcotraffico” lanciata dall’attuale amministrazione federale guidata dal presidente Felipe Calderón.
Essere donna a Juárez non è mai stato facile. Lo è ancora meno oggi, che nelle tremende statistiche di omicidi che riportano una media di 40 morti al giorno, la donna come genere tende a scomparire. Marisela Ortiz Rivera, maestra di scuola superiore, fondatrice ed attivista della organizzazione “
Nuestra hijas de regreso a casa”, descrive molto bene questa situazione: “Oggi Juárez è narcotraffico. Si pensa che il feminicidio sia stato risolto. La violenza generalizzata ha posto un velo che nasconde la morte di donne”.
A febbraio si sono compiuti dieci anni dal tragico omicidio di Lilia Alejandra García Andrade, che spinse Marisela, sua professoressa, ad assumere un ruolo attivo in questa lunga lotta contro il feminicidio. Lilia Alejandra subì un sequestro ad inizio febbraio 2001. Il 14 dello stesso mese, il suo corpo venne ritrovato, in pieno centro città, oltraggiato. Marisela, sconvolta, accorse immediatamente dalla famiglia della ragazza di appena 17 anni. Sua madre, Norma, e sua sorella, Malú, la ricevettoro ed insieme cominciarono le ricerche, poi le denunce. Infine, venne la fondazione di “Nuestra hijas de regreso a casa”, organizzazione civile che si occupa, assieme a molti altri, di sostenere la lotta per la verità e “per cambiare la cultura di fondo che costituisce il contesto del feminicidio”.
Marisela racconta come è cambiata la sua vita nel febbraio 2001. “Quando hai una vita normale non ti puoi immaginare cosa succede se decidi di alzare la voce e difendere una causa. La mia vita e quella della mia famiglia è cambiata da quando ho deciso di difendere i diritti delle donne. Ho vissuto esperienze dure e difficili, le stesse che ci hanno aiutato a riaffermare questa missione, giorno dopo giorno”. Il pericolo cui si riferisce Marisela ha un nome ed un cognome: “Sin da subito abbiamo ricevuto intimidazioni, minacce ed ogni tipo di repressione da parte del governo statale di Chihuahua”. E spiega: “Lo Stato ha trasformato il caso del feminicidio da una questione sociale ad una questione altamente politica”.
La corruzione, dice Marisela, è il contorno sociale in cui si realizza il feminicidio ed in cui le attività sue e delle sue compagne sono represse. “È un gioco perverso. I funzionari pubblici sono immersi in un sistema che reprime e fa danno. Giocano un ruolo in favore della struttura di governo che non è solamente tollerante ma partecipante, attivo. Dietro al feminicidio c’è questa corruzione legata al potere, la stessa che ha tolto valore alla presenza femminile nella società”.
È difficile oggi in Messico dare i numeri del feminicidio. Ciononostante, praticamente tutte le organizzazioni sociali ed alcuni governi locali sono concordi nel sostenere che il fenomeno ormai è diffuso in tutto il Paese e oltrepassa la frontiera. Secondo i dati dell’Istituto Cittadino di Studio sull’Insicurezza (Icesi) il maggior numero di donne assassinate nel 2010 si troverebbe nel Estado de México, entità federale vicina alla capitale messicana. Altri dati offerti dall’Osservatorio Cittadino Nazionale contro il Feminicidio (Ocnf) parla di 459 casi in Messico per il 2009, di cui 89 nel Estado de Mexico e 71 in Chihuahua.
I numeri però non rendono giustizia alle donne, dice Marisela. “Sarebbe sufficiente un caso”, spiega la Ortiz che nel corso di questi anni ha dovuto per un periodo separarsi dalle figlie a causa di minacce ricevute, afferma: “Mi sento nel mirino. Patiamo questa situazione da tanti anni, ma ancor di più oggi che lo Stato permette questi casi in modo più sfacciato. Il governo attuale sta agendo in modo molto repressivo e non sta rispettando i diritti umani. Credo che sia colluso con la violenza esercitata contro di noi”.
Ma Marisela resiste. “Rimango a Juarez perché questo non è il momento di abbandonare una causa cosi importante. Ho preso molti impegni con tanta gente. E poi, questa è la mia terra, ho la mia casa e tutti i miei averi qui”. Con voce consapevole aggiunge: “Qui ho i miei vivi e i miei morti. Non vedo perché devo abbandonare tutto questo, piuttosto credo di dever rimanere qui per recuperare quello che avevamo prima”.
Tre poliziotti federali la scortano e l’accompagnano ovunque ormai da tre anni. “Continuo ad andare a scuola, da lunedì a venerdì. In questo periodo di tanta violenza è necessario mantenere un profilo più basso, non vogliamo provocare reazioni, metterci in pericolo, ed allora lavoriamo di più sull’aspetto sociale, come con il progetto La Esperanza”, che accompagna la formazione dei giovani della città.
La lotta, dunque, non è ancora conclusa. Insiste Marisela: “Dobbiamo creare una cultura diversa per un futuro migliore e chi meglio dei figli delle donne assassinate possono contribuire a ciò? Sappiamo che solo così, cambiando il contesto culturale, potremo un giorno scongiurare tutta questa violenza”. Infine, Marisela commenta: “Nonostante le molteplici minacce ricevute anche da gente armata, credo che tutta questa situazione abbia contribuito alla mia formazione. Ringrazio tutti i nostri nemici perché mi hanno aiutato ad essere una persona più forte. Se mi devo pentire di qualcosa, direi che mi pento di non aver cominciato prima ad organizzarmi, di aver tenuto gli occhi chiusi fino al caso di Lilia Alejandra”.