sábado, 27 de noviembre de 2010

Marisela Ortiz Rivera nella “città che uccide le donne

“È il coraggio con cui la vittima affronta, nel momento estremo, una morte indegna a liberarci di volta in volta dalla paura”

(Sergio Gonzáles Rodríguez in “Ossa nel deserto”)

Ci sono donne che rischiano ogni giorno la vita e quella dei loro famigliari per la battaglia in favore dei diritti umani. Donne che fanno della ricerca di verità e giustizia un obiettivo, uno stile di vita, uno modo di essere. Donne che, per quanto siano coraggiose e tenaci, possono continuare la loro battaglia soltanto se noi ci accorgiamo di loro e puntiamo il dito contro chi le vuole mettere a tacere, magari per sempre.

Una di queste donne coraggio si chiama Marisela Ortiz Rivera. È messicana e vive a Ciudad Juárez, l’ormai tristemente famosa “città che uccide le donne”. Dal 1993, in questa città si contano più di 1.300 donne uccise e centinaia di donne sparite. I corpi vengono spesso ritrovati irriconoscibili nel deserto, nudi, violati, straziati dalle torture subite, anche mutilati. Corpi di giovani donne, anche bambine. Corpi che testimoniano l’assoluta sofferenza di queste donne, rapite, più volte torturate, violate, uccise e buttate.


Marisela Ortiz Rivera

Un incubo quotidianamente alimentato dall’incapacità, negligenza e mancanza di volontà da parte delle istituzioni statali e federali di indagare i casi, di sottoporre alla giustizia i colpevoli, di assicurare il diritto al risarcimento dei familiari delle vittime e adottare misure efficaci perché le donne di Ciudad Juárez siano sicure nella loro città.

Attivisti contro i femminicidi minacciati di morte

Marisela Ortiz Rivera, psicologa e maestra, è presidente dell’associazione “Nuestras hijas de regreso a casa” (Perché le nostre figlie tornino a casa), che a Ciudad Juárez si batte perché sia fatta luce sui casi di femminicidio. L’associazione da anni denuncia l’incapacità dello Stato di far fronte al suo obbligo di garantire giustizia e supporta le famiglie delle vittime.

Gli attivisti dell’associazione sono spesso oggetto di minacce di morte. Amnesty International, e altre associazioni che si adoperano per la tutela dei difensori dei diritti umani nel mondo, più volte hanno lanciato delle azioni urgenti per chiedere alle autorità messicane garanzie per la sicurezza personale degli attivisti dei diritti umani a Ciudad Juárez, tra di loro anche Marisela.

Attualmente Marisela Ortiz Rivera esce di casa solo se scortata da agenti di polizia. Nel novembre 2009 è stato ucciso in circostanze poco chiare un giovane attivista di “Nuestras hijas de regreso a casa”, era il genero di Marisela.

Marisela Ortiz Rivera è in Italia in questi giorni per portare la sua testimonianza e raccogliere solidarietà. Ricordiamo che il suo coraggio e la sua tenace dedizione alla causa contro i femminicidi sono stati riconosciuti anche da enti e associazioni italiane. Per esempio, il Comune di Torino ha insignito Marisela della cittadinanza onoraria, e il Comune di Firenze le ha riconosciuto il Giglio d’Oro.

“Donne di Sabbia”, spettacolo teatrale di testimonianza e denuncia
Donne di Sabbia

Sabato 20 novembre Marisela era a Milano, alla biblioteca Calvairate, ospite d’onore della 50ma rappresentazione teatrale di “Donne di Sabbia”, spettacolo patrocinato da Amnesty International.

“Donne di Sabbia” è un’associazione formata da donne del torinese che mettono in scena l’omonimo spettacolo, e a cui fa capo l’instancabile Monica Livoni. Si tratta di un’intensa testimonianza sui femminicidi di Ciudad Juárez. Il ricavato degli spettacoli è devoluto a sostegno dei progetti di “Nuestras hijas de regreso a casa”. È uno spettacolo assolutamente coinvolgente.

Nell’occasione Marisela Ortiz Rivera ha ringraziato “Donne di Sabbia” per il lodevole e importante supporto, e ha ringraziato tutte le associazioni che in Italia le sono di sostegno, tra cui Amnesty International. Era evidentemente commossa. Ha ricevuto un lungo e caldo applauso dal pubblico, che le ha fatto molte domande sulla sua attività in difesa dei diritti delle donne e la situazione attuale a Ciudad Juárez.

Ciudad Juárez oggi

Marisela Ortiz Rivera denuncia che lo Stato non sta facendo, attualmente, ancora nulla per far fronte ai suoi doveri di rendere giustizia alle vittime, di porre fine all’impunità identificando e giudicando i colpevoli. Anzi fa presente che la situazione negli ultimi anni è peggiorata, e va purtroppo peggiorando.

Nel 2010 sono state uccise 300 donne, una donna ogni 29 ore. Marisela usa più volte la parola guerra per descrivere la situazione di una città con una popolazione di circa un milione e mezzo di abitanti. Le vittime sono ragazze giovani, spesso lavoratrici nelle maquiladoras, fabbriche di assemblaggio, soprattutto statunitensi, che sfruttano il basso costo della manodopera messicana. Sono donne povere, sole e che possono facilmente sparire senza troppo “chiasso”.

Marisela Ortiz Rivera spiega che ogni giorno a Ciudad Juárez chiudono 7 attività commerciali. Se un tempo le strade erano trafficate e piene di gente, ora sono vuote, e le maquiladoras a causa della globalizzazione chiudono. La gente lascia la città, ostaggio di una guerra tra i due più importanti cartelli della droga, quelli di Sonora e di Juárez.

Tra il pubblico c’è chi non riesce a comprendere come è possibile che centinaia di donne vengano uccise e non si faccia nulla per ricercare i colpevoli. Si chiede chi in effetti uccida le donne. Come sia possibile che succeda tutto questo, dato che il Messico è un Paese di diritto.


Questo il punto. Il Messico ufficialmente è definito Paese di diritto. Sicuramente il Messico a livello internazionale si è fatto promotore di molte iniziative a favore dei diritti umani, tra le quali la costituzione del Tribunale Penale Internazionale. E questo è un fattore senz’altro positivo che viene riconosciuto al Paese. Ma a livello interno gli impegni sottoscritti nei trattati internazionali non vengono mantenuti.

La debolezza del sistema nel garantire giustizia ed equità in Messico è stata denunciata da tempo sia a livello nazionale che internazionale. Già nel 2002 il Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’indipendenza dei giudici e avvocati dichiarava: “Sembra che impunità e corruzione siano continuate, anziché essere combattute. Qualsiasi cambiamento o riforma non risulta nei fatti”.

È come se tutti gli aspetti negativi del Messico si catalizzassero a Ciudad Juárez, Paese di frontiera con gli USA. Crogiolo della violenza portata dai cartelli della droga dove pare, tra l’altro, che gli adepti amino organizzare festini satanici con belle ragazze che diventano vittime sacrificali. Dove i nuovi membri devono dimostrare di valere, e la prova è probabilmente quella di sapere torturare, uccidere e mutilare. Probabilmente lo devono dimostrare mostrando il capezzolo di una donna come prova.

Ciudad Juárez è ostaggio di una cultura machista che fa della donna un oggetto, e non soggetto di diritti. Ostaggio dell’abominevole mercato degli snaff movies, video di stupri, torture e omicidi reali che negli Usa vengono venduti a settanta, centomila euro.

Ostaggio della corruzione del sistema politico, giudiziario ed economico, dove le indagini se iniziate non vengono portate a termine, o sono depistate, e dove a volte vengono accusati innocenti, “capri espiatori” per tranquillizzare la cittadinanza.

Ciudad Juárez dove gli agenti di polizia sono a volte non solo conniventi, ma anche gli stessi autori di stupri, torture e femminicidi. Ciudad Juárez dove l’esercito, inviato per porre un freno alla violenza, invece la riproduce violando a sua volta.

Chi denuncia e dice la verità rischia la vita

Si può ben comprendere come in una situazione del genere sia molto pericoloso denunciare gli abusi e raccontare la verità. Una pericolosità testimoniata anche dal fatto che il Messico rimane il Paese più pericoloso per i giornalisti: 13 sono stati uccisi nei primi nove mesi del 2010 per aver scritto troppo, o scritto quello che non dovevano.

La stampa ufficiale e i media sostengono generalmente la verità del governo, che tenta di far passare i femminicidi come crimini esclusivamente legati al narcotraffico. Si vuole tranquillizzare la popolazione facendole credere che tutte le donne uccise appartengano in qualche modo al mondo del crimine, e che chi conduce una vita onesta non ha nulla da temere. Per questo motivo le associazioni come “Nuestra hijas de regreso a casa” vengono accusate di infangare senza motivo il nome della città. Ma a Ciudad Juárez troppo spesso le donne vengono uccise in quanto donne.


Marisela Ortiz Rivera, la sua famiglia e i membri di “Nuestras hijas de regreso a casa” ogni giorno lottano sfidando tutto questo, cercando tra l’altro di ridare speranza e fiducia ai figli delle vittime. Una lotta quotidiana che non può fare a meno del supporto di altre donne, uomini, istituzioni che, lontani da Ciudad Juárez, possono senza troppi rischi puntare il dito, denunciare, sollecitare giustizia.

Come del resto ha fatto la Corte Interamericana nel novembre 2009 emettendo una sentenza sull’emblematico caso denominato “Campo di cotone”, dal luogo dove nel 2001 sono stati ritrovati i corpi di 5 ragazze, alcune minorenni. Si è trattato di una sentenza storica in cui la Corte ha denunciato il Messico per inadempienza e lo ha sollecitato a intraprendere una serie di attività per far fronte ai suoi impegni. A oggi, però, lo Stato rimane inadempiente.