Laura Stefani mi invia questa intervista a Marisela Ortiz Rivera sul tema del Femminicidio. Grazie Laura.
CIUDAD JUÁREZ E MARISELA ORTIZ RIVERA
Esistono storie che a nessuno piace ascoltare perché parlano di morte, violenza brutale e buio dell’anima. E luoghi che restano all’ultimo gradino nella scala dei desideri: non ci vorresti passare neanche per sbaglio. È il caso dei femminicidi e di Ciudad Juárez, nello Stato di Chihuahua, al confine tra Messico e Stati Uniti. Trattati dai giornali locali come sporadici casi di violenza domestica o completamente ignorati dalla maggior parte dei media, sono omicidi di genere moltiplicatisi a un ritmo impressionante dal 1993. Anche se è difficile rintracciare dei dati reali, le ultime cifre ufficiali parlano di più di 1500 casi di donne uccise o desaparecidas nello Stato di Chihuahua. Quando i corpi vengono ritrovati, nel deserto o ai margini della città, portano segni di sevizie sessuali, torture oppure sono stati mutilati. Di solito il viso è irriconoscibile. A Juárez, si viene uccise per il solo fatto di essere donne, o meglio, donne con caratteristiche particolari: adolescenti, carine, con pochi mezzi economici, nella maggior parte dei casi impiegate come manodopera a bassissimo costo nell’industria maquiladora, cioè nelle filiali di multinazionali straniere di assemblaggio che circondano la città. Ragazze completamente vulnerabili, immigrate dalle zone rurali del Messico e del Centro America in cerca di un lavoro. Spesso da sole o con figli piccoli.
Non esiste una situazione analoga nel paese: migliaia di crimini, nella quasi totalità impuniti o dimenticati dalle autorità, se non fosse per il lavoro instancabile di altre donne, madri e attiviste per i diritti umani, le uniche ad alzare la voce da 18 anni per chiedere verità e giustizia. Come Marisela Ortiz Rivera, diventata il simbolo di questa lotta. 48 anni, psicologa e professoressa, ha fondato nel 2001 insieme a Norma Andrade l’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa(Le nostre figlie di ritorno a casa) che supporta i parenti delle ragazze assassinate o sparite. La sua vita è cambiata il 14 febbraio 2001 quando Lilia Alejandra Andrade, una sua studentessa, è stata sequestrata e ritrovata uccisa dopo una settimana. Aveva 17 anni e due figli piccoli. Fu rapita all’uscita della maquiladora dove lavorava: «Da quel giorno, con sua madre Norma, siamo scese nelle strade per portare l’attenzione sul caso che rischiava di cadere nel vuoto, come quasi tutti gli altri. E immediatamente siamo state avvicinate da alcune famiglie che ci chiedevano appoggio, nessuno sapeva a chi rivolgersi, allora abbiamo iniziato a convocare delle conferenze stampa, a sporgere denunce e a documentare i casi: l’associazione è nata dall’urgenza di contrastare l’indifferenza generale. Ma quanto eravamo ingenue, all’epoca c’era ancora chi tra noi confidava nella giustizia, non avevamo idea del mostro che stavamo affrontando», ci racconta al telefono. Il mostro. Quasi che a Juárez, considerata una delle città più pericolose del mondo con un media di 9 morti al giorno (3100 morti nel corso del 2010), si fosse concentrato tutto il lato oscuro del Messico: una cultura fortemente machista e misogina, corruzione politica e giuridica, connivenze tra autorità e crimine organizzato, guerre tra i cartelli per il controllo del territorio. A peggiorare la situazione si aggiunge la cosiddetta “guerra al narcotraffico” che l’attuale presidente Felipe Calderón ha lanciato dal 2006, lasciando nelle strade circa 50 mila morti. E proprio contro questa mattanza – altrimenti definite “vittime collaterali” dal governo – nel maggio scorso 200 mila persone tra indigeni, organizzazioni sociali, studenti, zapatisti, cattolici, capitanate dal poeta Javier Sicilia, sono scese nel centro di Città del Messico dando vita a una marcia per la pace senza precedenti e a una successiva carovana attraverso tutto il paese.
«Dal 2006 è successo il peggio che poteva succedere. Abuso di potere, nessun rispetto dei diritti umani, aumento della delinquenza. Con l’incremento della violenza e la militarizzazione della città, le sparizioni forzate sono aumentate del 400 per cento», aggiunge Marisela. Basta guardare i dati più recenti: un articolo uscito il 30 luglio 2011 sulla rivista messicana Procesoriporta che solo da gennaio a maggio 2011 la questura di Ciudad Juárez ha ricevuto 100 denunce di sparizioni di ragazze adolescenti. Secondo una ricerca condotta da un’altra organizzazione impegnata nella lotta, Justicia para Nuestras Hijas (Giustizia per le nostre figlie), dal 1 gennaio al 4 ottobre 2010 sono avvenuti 229 casi di femminicidio a Ciudad Juárez, sui 335 dello Stato di Chihuahua. Resta la domanda: perché proprio qui e con questa incidenza? «Perché ci sono le condizioni che permettono questi terribili omicidi. Innanzitutto, l’anonimato e la vulnerabilità di queste ragazze, in una città in cui già la vita non vale niente. La maggior parte delle famiglie vive in baraccopoli, priva dei servizi di base. L’industria che le impiega non si preoccupa minimamente della sicurezza delle proprie dipendenti, anzi in certi casi ha negato che fossero sue operaie. Nessuno dei dirigenti ha mai preso una posizione sugli omicidi, nessuna presenza ai funerali, tutto va fatto passare sotto silenzio. Un altro fattore è l’ambizione per il denaro e la corruzione dilagante di giudici, alti funzionari e imprenditori. È notizia recente, la possibile incriminazione dell’ex Procuratore Generale di Giustizia, Patricia González, per sospetta complicità con il narcotraffico e non si contano i casi accertati di capi delle forze dell’ordine collusi con i cartelli o con le reti della tratta di donne, che riguarda circa il 17% dei casi di sparizioni forzate. Viviamo in una società completamente deteriorata. Si partecipa, si tollera e si promuove il crimine. Infine, il narcotraffico. Sappiamo che esistono rituali di iniziazione in cui i nuovi membri dei cartelli devono dimostrare di avere le capacità per picchiare, torturare, violentare e uccidere un altro essere umano. Queste ragazze sono l’oggetto con cui provare di essere all’altezza del ruolo. In altri casi sono state sequestrate e usate come “offerte sessuali” per celebrare un successo negli affari, come la consegna di un grosso carico di droga». Il risultato è l’impunità pressoché totale. Le indagini non approdano a nulla perché mancano linee investigative consistenti: «non c’è nessuna volontà da parte del governo di Chihuahua di fare giustizia sui femminicidi». Inadempienze e dinieghi riconosciuti anche a livello internazionale con la storica sentenza del “Campo Algodonero”, dal nome del luogo in cui dieci anni fa furono ritrovati otto cadaveri femminili. Nel 2009 la Corte intermericana dei diritti umani, su precedente denuncia di NHRC, ha condannato lo Stato di Chihuahua per omissione di impegno nella risoluzione del caso.
Da dieci anni Marisela Ortiz Rivera, con le madri dell’associazione e l’appoggio di Amnesty International, parla con la stampa, indaga e denuncia tutto questo. E da dieci anni cercano di zittirla. Ha subito minacce di morte, un tentativo di sequestro, ha vissuto con la scorta («Ma la sostanza è la stessa, se vogliono ucciderti lo faranno lo stesso») finché lo Stato messicano non ha deciso di ritirarla senza preavviso. Nel 2009 è stato assassinato Jesús Alfredo Portillo Santos, 27 anni, studente e attivista di NHRC: era il marito di sua figlia. Eppure mai aveva pensato di lasciare Juárez, fino a marzo dell’anno scorso, quando ha ricevuto una minaccia più seria delle altre che l’ha costretta ad andare in esilio insieme alla sua famiglia. Adesso vive negli Usa: «La situazione è precipitata perché negli ultimi mesi siamo nel mirino proprio noi attiviste. Josephina Reyes e Marisela Escobedo Ruiz, rispettivamente una militante e una madre a cui hanno ucciso la figlia, sono state impunemente assassinate per la strada. Il 5 Gennaio 2011 è stata uccisa Susanna Chàvez, una poetessa da sempre impegnata nella lotta al femminicidio. Questo dà l’idea di cosa può succederti. Ero sicura che mi avrebbero colpito e io non ho intenzione di sacrificarmi, sono disposta a dedicare anima e corpo a un ideale, ma da viva». La sua voce si distende quando inizia a parlare del progetto di cui si sta occupando da vicino. Si chiama Progetto della Speranza ed è rivolto ai figli e alle figli delle ragazze uccise o scomparse, perché non bisogna dimenticare che i femminicidi sono un “fenomeno che coinvolge tre generazioni, mamme, nonne e figli, aumentando a dismisura il numero delle vittime”, come scrive Patrizia Peinetti nel libro Ciudad Juárez. la violenza sulle donne in America Latina, l’impunità e la resistenza delle Madri (a cura di Silvia Giletti Benso e Laura Silvestri, Franco Angeli Editore, 2010).
«Non esiste nessun tipo di assistenza sociale per i figli delle vittime, lo Stato è latitante, mentre spesso le nonne sono costrette a tornare a lavorare per mantenerli. All’inizio bisogna guarire le ferite e accompagnarli nell’elaborazione del lutto tramite la psicoterapia e l’arteterapia. Solo allora passiamo a un lavoro sul rafforzamento personale, con lo studio e la formazione ai diritti umani. Pensiamo sia possibile creare una cultura diversa proprio a partire dalla generazione più schiacciata dalla violenza: questi ragazzi devono continuare la battaglia iniziata dalle loro nonne. È un processo molto lungo e delicato, abbiamo pochissimi finanziamenti, ma è una fonte continua di crescita e soddisfazioni». Dieci anni di lotte hanno portato anche a cambiamenti importanti: «Come aver tolto i femminicidi dalla cronaca nera e averli portati sulle prime pagine di giornali messicani e stranieri. Siamo riuscite a creare un protocollo di ricerca, il Protocollo Alba, che obbliga le autorità ai tre livelli – municipale, statale e federale – a iniziare immediatamente una ricerca esaustiva di fronte a una denuncia, cosa che prima non succedeva. E così abbiamo ritrovato tre ragazze ancora vive. A livello istituzionale, ci sono delle novità come la Legge federale sull’accesso a una vita libera dalla violenza e la Commissione per prevenire e combattere la violenza, ma i risultati reali ancora non si vedono. In generale, oggi la società è più cosciente rispetto al passato. La paura però è cresciuta, insieme all’escalation di violenza. Moltissime famiglie hanno perso un parente in questa città e quando la violenza ti investe personalmente, non puoi più rimanere insensibile. C’è più gente che scende nelle strade, ma non abbastanza, vorrei che tutti partecipassero a questa battaglia».
Marisela non si è fermata, continua a organizzare il lavoro di NHRC dagli Usa. Confessa che non vede l’ora di tornare a casa sua, in Messico. E chiude: «Quando mi chiedono se mi sono mai pentita, rispondo di sì: mi pento di non aver iniziato prima questa lotta. Di essere stata cieca e sorda per troppo tempo».
Laura Stefani