Da El Paso, in Texas, Marisela è adesso in Italia per ricevere il premio internazionale Humanitates dall’Università di Bologna. Dal 2001 la sua associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa aiuta donne che chiedono di ritrovare le proprie figlie scomparse : "continuamente".
Occhi scuri e profondi, sguardo deciso, un sorriso timido ma fermo, l’espressione di chi ha visto e, ancor più, percepito l’orrore. Marisela Ortiz Rivera è la donna simbolo della lotta al femminicidio a Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua (Messico), dove dal 1993 sono almeno 1.500 le donne sparite o uccise. Dopo le minacce di morte ricevute a causa della sua attività nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa che ha fondato nel 2001, ora Marisela vive in esilio negli Usa, a El Paso, in Texas. Grazie al suo straordinario impegno, che ha sfidato la violenza dei cartelli del narcotraffico e dello Stato messicano, il Mondo ha conosciuto una realtà che nei decenni successivi si sarebbe estesa a tutto Messico per poi spingersi alle più diverse latitudini, sia pur con caratteristiche fondamentalmente differenti da quello che accade a Ciudad Juarez. Marisela è in Italia per ricevere il Premio Internazionale Humanitates dell’Università di Bologna, a dieci anni dal suo esilio. L’abbiamo video-intervistata (esclusivamente) per voi!
Da dove nasce il suo l’interesse per la questione del femminicidio?
“Prima di diventare un’attivista contro i femmicidi, non sapevo praticamente nulla sull’argomento. Pur vivendo a Ciudad Juarez, non avevo idea di quello che accadeva a tante donne, ragazze, bambine. Io sono una maestra, insegno alla scuola secondaria, la vostra scuola media. Un giorno, era il 2001, una mia ex studentessa, figlia di una mia amica, scomparve, e la sia famiglia mi chiese aiuto per ritrovarla. Si chiamava Lilia Alejandra García Andrade. Lilia era una ragazza molto riservata e precisa, aveva due figli piccoli, un bambino e una bambina, lavorava in una delle tante manifatture che ci sono in città, ed era uscita per andare in fabbrica, ma non era più tornata a casa. Subito cercai di trovare informazioni presso le altre ex studentesse per capire se sapessero qualcosa, se avessero idea di cosa potesse esserle capitato. Ma nessuno sapeva nulla. Lilia aveva 17 anni e la sua ragione di vita erano i suoi due bambini, per questo l’ipotesi che si fosse allontanata di propria spontanea volontà era quantomai remota. Era chiaro che qualcuno l’avesse rapita. Allora preparammo dei volantini con la sua foto, vestita degli abiti che indossava al momento della scomparsa, e li attaccammo in giro per la città. Nei posti più frequentati, sugli autobus con cui si spostavano i lavoratori, con il numero di telefono della mamma per chi eventualmente potesse fornire delle notizie a riguardo. Cercavano una pista”.
E la trovaste?
“Purtroppo ritrovammo solo il suo corpo brutalmente assassinato, con segni visibili di sevizie, e drammatici indizi di estrema violenza. Fu uno shock per me”.
Cosa faceste a quel punto?
“Andammo dalla polizia e dalle autorità per chiedere che venissero trovati e perseguiti i colpevoli dei quel delitto inumano, senza successo: ad oggi nessuno ha mai pagato per la morte di Alejandra. Come nessuno ha pagato per nessuno dei femminicidi commessi in questi anni. Era il 21 febbraio del 2001 e da allora il mio impegno contro i femmicidi, per denunciare la scomparsa delle ragazze e l’immobilismo, se non la connivenza, delle istituzioni e della polizia, per chiedere giustizia, non si è mai fermato fino ad oggi. Dopo la scomparsa ed il martirio di Lilia, conoscemmo tante altre madri che avevano vissuto o stavano vivendo lo stesso dramma, e ci unimmo a loro costituendo un movimento che è cresciuto di anno in anno, che abbiamo significativamente chiamato “Nuestras Hijas de Regreso a Casa”.
Perché accusa le istituzioni, la polizia di non fare niente per contrastare i femminicidi?
“È la storia di questi anni che ce lo insegna. Le autorità non intervengono, non cercano mai le ragazze, se non quando è troppo tardi. E lo fanno solo perché sollecitate. Anzi tendono a banalizzare il tema, a minimizzare, colpevolizzando le ragazze per la loro stessa scomparsa. Le vittime diventano quelle che in qualche modo se la sono cercata, la cui morte è la conseguenza di comportamenti sconsiderati, avventati, del modo in cui si vestono, delle cattive frequentazioni”.
Cosa è cambiato da allora ad oggi?
“Il problema non si è risolto, né i femminicidi si sono fermati. Certo è cresciuta la consapevolezza della società, ed anche la nostra capacità di intervenire. Le nostre denunce non sono più state banalizzate come accadeva prima, e noi stesse come attiviste ci sentiamo più protette, meno esposte alle minacce e alle vendette per aver denunciato le autorità in conseguenza delle loro mancanze e dei ritardi nell’intervento. In generale è cresciuta la coscienza civile al punto che ora sono tante e tanti che chiedono giustizia, che alzano la voce scendono in strada per chiedere che si ponga un rimedio alla sparizione delle donne e che vengano trovati e condannati i colpevoli. Di certo gli omicidi continuano. Non sappiamo esattamente se il fenomeno si sia ridotto ma certamente non è scomparso. E a noi si avvicinano continuamente donne che chiedono di ritrovare le proprie figlie scomparse“.
È cambiato l’atteggiamento delle autorità grazie alla vostra mobilitazione?
“Va detto che almeno oggi la polizia si muove subito, e si unisce a noi nelle ricerche. La minimizzazione del fenomeno è diminuita. Quando noi cominciammo non avevamo molta capacità di riunire persone per appoggiare la nostra causa. Oggi invece in tanti si uniscono a noi o nella ricerca delle ragazze scomparse o nell’identificazione dell’autore del rapimento. E questo ovviamente rende più facile un intervento immediato e quindi più efficace. Un altra questione che è migliorata è che, siccome eravamo poche, prima era facile intimidirci, minacciarci, perseguitarci e diffamarci, dicendo che mentivamo o che avevamo altri interessi. Ora non è più possibile perché siamo tanti e siamo decise, ed abbiamo acquisito un prestigio sociale
Ma perché Ciudad Juares è l’epicentro del femminicidio?
“Perché ha una serie di caratteristiche specifiche che premettono questa cosa. Ci sono scrittori che definiscono Ciudad il “laboratorio del futuro”, perché quello che succede qui poi si riproduce in tutto il Paese. La prima cosa che conta è il fatto di essere alla frontiera con gli Stati Uniti, e questo fa di Ciudad Juarez la porta più grande per l’ingresso nel Nord America, con due ponti internazionali che passano proprio attraverso la città ed altri due appena fuori. Questa posizione è strategica naturalmente anche per i traffici illeciti, a partire dal traffico di droga, che qui trova una delle principali direttrici verso gli Usa. Il fatto che ci siano tante attività economiche lecite ed altrettante illecite determina un grande flusso di denaro che produce un’estrema polarizzazione della ricchezza, con tantissime persone estremamente povere e un’ élite agiata di super benestanti. Moltissima di questa ricchezza è prodotta proprio dal narcotraffico. E di conseguenza la corruzione è estesissima, in generale nel Paese, in particolare a Ciudad Juarez. Perché, mi fa male dirlo, ma alla fine tutti ci guadagnano con la corruzione: i corruttori , che continuano impunemente a svolgere i propri traffici illeciti e i corrotti, che si riempiono le tasche. Tutto è permesso, nessuno vede e nessuno parla.
E la polizia?
“È complice di tutto questo”.
In che modo il narcotraffico è legato al fenomeno del femminicidio?
“In diverse maniere. Innanzitutto bisogna considerare che, nei dintorni di Ciudad Juarez, sulle alture, ci sono molti rifugi, posti di avvistamento e di controllo dei cartelli della droga. Il passaggio dei carichi viene solitamente festeggiato con bagordi in cui la presenza donne da sfruttare sessualmente è ovviamente molto ricercata. All’inizio del Duemila, per altro, erano due i gruppi che si contendevano il controllo del passaggio nella zona di Juarez e questo moltiplicava tanto le occasioni di scontro, gli omicidi, quanto le occasioni di festeggiamento, perché ciascun gruppo celebrava i propri successi. Il fatto che si combattessero portava ad una continua richiesta di manovalanza per sostituire i trafficanti uccisi. E qui entra il secondo elemento, perché i riti di iniziazione dei nuovi soldati della droga, prevedeva spesso la violenza nei confronti delle donne: rapimento, sevizie, violenze sessuali e non solo, fino alla tortura e all’uccisione. I soldati dovevano dimostrare di essere feroci e di non avere alcuna pietà nemmeno nei confronti di essere deboli e indifesi. Non a caso molte delle donne che venivano rapite, poi erano seviziate in maniera orribile prima di essere violentate e uccise. Un valore particolare in questi riti di iniziazione avevano ed hanno le ragazzine vergini, e spesso poco più che bambine”.
Sono stati arrestati nel corso degli anni gli assassini?
“No, mai. La cosa incredibile è questa. Mai nessuno è stato condannato per questi crimini. Qualche fiancheggiatore, magari, ma mai i mandanti e gli esecutori materiali degli omicidi, delle torture e delle violenze. Addirittura, il giorno prima che venni ricevuta al Parlamento Europeo, la procura della regione di Juarez fece uscire in dossier in cui si elencavano decine di persone che erano state arrestate e perseguitate per i delitti che noi denunciavamo. L’obiettivo era duplice: far vedere che si erano mossi per assicurare giustizia, e l’altro era chiaramente quello di screditarci. Ma in realtà in quel fascicolo c’erano sì dei violentatori, dei criminali, che avevano anche ammazzato delle donne. Ma si trattava di violenza domestica, non del fenomeno che noi denunciamo, e che si svolge fuori dalle mura domestiche non avendo nulla a che fare con le dinamiche familiari. Solo in un caso ricordo che una delle persone è stata condannata”.
Quale?
“Nel 2015 ci fu un caso incredibile che vide come vittima una bambina di appena sette anni, Iris Estrela. Dopo tante ricerche il corpo di Iris fu infine ritrovato con addosso segni di sevizie inenarrabili: addirittura le era stato strappato il cuoio capelluto quando era ancora viva. Il suo corpo fu messo poi in un secchio che fu riempito di cemento, tanto che fu ritrovata, come quasi sempre accade, solo perché un passante notò delle dita che uscivano da questo secchio della spazzatura. In questo caso ci fu una fortissima indignazione, tutta la comunità si unì. Tutti erano molto arrabbiati e ci fu una grande manifestazione cui parteciparono anche le autorità e finanche rappresentanti delle istituzioni nazionali, del governo. Questa volta fu trovato un colpevole, dei sue sospettati”.
Ci sono delle caratteristiche specifiche delle vittime di femminicidio?
“Sì, si tratta tutte di donne giovani, belle, con capelli lisci e lunghi carnagione olivastra. Ragazze solitamente provenienti da famiglie molto povere, spesso lavoratrici delle manifatture che sorgono lungo il confine con gli Stati Uniti. E questo è uno degli elementi centrali della vicenda. Perché quando sei di fronte , come a Juarez, ad una società così disgregata, con una estrema polarizzazione della ricchezza, il senso di impunità da parte di qualcuno è enorme. Perché si pensa, e di fatto accade, che verso certe persone non ci sarà mai giustizia, le indagini non verranno fatte, i crimini non verranno perseguiti, i colpevoli non verranno punti. Ed è questo quello contro cui noi lottiamo ancora oggi”.