Il dolore di una madre di Ciudad Juarez per l’uccisione delle due figlie di 17 e 21 anni © Spencer Platt, Getty Images |
3.723 donne sono state uccise in Messico nel 2020. Per le famiglie cercare giustizia è un inferno. La polizia non indaga e minaccia chi andrebbe protetto.
Sono 3.723 le donne uccise in Messico nel 2020. Almeno dieci donne al giorno. Per le famiglie delle vittime cercare giustizia è un viaggio all’inferno, spesso senza fine. In un report, Amnesty International denuncia un sistema con falle vertiginose fra le autorità dello stato del Messico, il più popoloso del paese: prove perse, indagini incompiute e minacce ai famigliari che premono per avere delle risposte: “Non fate troppo rumore”, è l’avvertimento da parte della polizia.
A rinvenire sotto terra il corpo della madre, Julia Sosa Conde, sono state le figlie. Lo hanno trovato scavando con le loro mani nel campo in cui lavorava il compagno, a una settimana circa dalla scomparsa della donna. La polizia è arrivata 21 ore dopo: “Non abbiamo uomini”, è stata la motivazione. Per quel tempo interminabile le figlie hanno vegliato sul cadavere della madre, proteggendo la scena del crimine. Una di loro, Vanessa, racconta anche di come sia stata raccolta la sua denuncia: lei elencava i fatti e l’agente si assopiva, senza ritegno. “Mi faceva le domande e poi si addormentava. È stato orribile”.
Attiviste scendono in strada a Cancun, Messico, per dire basta alla carneficina © Erick Marfil/ Getty Images |
La polizia chiede alle madri di avanzare con le indagini
“Cos’hai scoperto, hai qualcosa per noi?”. È la domanda che Laura Curiel, madre di Daniela Sanchez Curiel, scomparsa dal marzo 2015, si è vista fare più volte dagli ufficiali. La signora Curiel lavorava di notte in un call center, per potersi dedicare di mattina alle ricerche della figlia Daniela, prendendosi anche cura del nipotino che all’epoca aveva solo tre anni. Poi sono iniziate le intimidazioni e il livello di stress è salito al punto tale da non riuscire più a lavorare.
Non si contano le donne che perdono l’indipendenza economica, la salute e la libertà per trovare almeno il corpo delle figlie e assicurare i colpevoli alla giustizia, in un sistema omertoso e indifferente.
I nomi delle vittime di femminicidio sui cartelli di una manifestazione a Città del Messico © Karen Melo/ Getty Images |
Le indagini si muovono solo le famiglie fanno pressione
In un’intervista condotta da Amnesty International, un dipendente dell’ufficio della procura ha dichiarato che l’andamento delle indagini dipende in buona parte dalle pressioni che ricevono sul caso. “Quando andiamo nell’ufficio del procuratore generale vediamo molti fascicoli su omicidi di donne che non vengono nemmeno toccati – racconta ancora Laura Curiel –. Chiediamo ai famigliari delle vittime se ci sono degli sviluppi, la risposta è no, non sanno nulla. Ho sempre pensato che ogni minimo passo fatto delle autorità fosse solo frutto della nostra presenza costante e determinata”.
Indagare, cercare prove, ottenere informazioni, oltre a costare parecchio tempo e denaro, significa mettersi in pericolo. La protezione che dovrebbe essere garantita alle famiglie delle vittime è una chimera. “La realtà è che mi sono sempre protetta da sola”, aggiunge la madre di Daniela. “Ho cambiato casa migliaia di volte. È così che vado avanti, appena mi sento in pericolo mi muovo. Salto da un posto all’altro, perché le autorità non mi hanno mai garantito alcuna sicurezza”.
Le croci rosa dedicate alle vittime di femminicidio in Messico © Yuri Cortez/Afp via Getty Images |
I femminicidi in Messico non sono solo a Ciudad Juarez
La piaga dei femminicidi in Messico non riguarda quindi solo le strade polverose e desertiche di Ciudad Juarez e lo stato del Chihuahua, ma tutta la repubblica federale, con un’attenzione crescente allo stato del Messico che, negli ultimi dieci anni, è diventato teatro di una rete sempre più fitta di organizzazioni criminali. Nel 2018, il 79,6 per cento degli abitanti viveva in uno stato di povertà, vulnerabilità e privazione, con un tasso di criminalità tra i più alti del paese.
Lo stato è responsabile degli episodi di violenza compiuti sul suo territorio
Nel 2009, la Corte interamericana dei diritti umani aveva condannato il Messico per violazione dei diritti alla vita, all’integrità, alla libertà personale, per la violazione del dovere di tutelare i minori e per la violazione del divieto di non discriminazione. Una sentenza storica che stabilisce la responsabilità internazionale dello stato per gli episodi di violenza di genere avvenuti sul proprio territorio, con obbligo di riparazione di sedici violazioni entro un anno dalla sentenza.
Un risultato importantissimo, ottenuto dopo anni di battaglie da parte dei famigliari di tre femminicidi, con due delle vittime minorenni, avvenuti nel 2001 nell’area conosciuta come il “campo algodonero”, ovvero il campo di cotone di Ciudad Juarez. Nel 2017 però la stessa corte ha riconosciuto l’adempimento di sole nove disposizioni, sulle sedici richieste.
Un’attivista mostra il cartello con il volto di Isabel Cabanillas e la scritta ‘Non avremo pace se non avremo giustizia’ © Yo Ciudadano |
Anche la famiglia dell’attivista Isabel Cabanillas aspetta giustizia
A quasi due anni di distanza, l’assassinio di Isabel Cabanillas, giovane artista, attivista e madre di un bimbo piccolo, è ancora senza colpevoli. Stando alle dichiarazione dell’amministrazione uscente, non è stato possibile raccogliere prove sufficienti per portare il caso in tribunale; restano ancora aperte tre piste investigative e il nuovo ufficio della procura avrà quindi la responsabilità di proseguire con le indagini.
I famigliari e gli amici continuano a credere che Isabel sia stata ammazzata proprio perché nota attivista dell’associazione Hijas de su maquilera madre. È stata ritrovata in strada uccisa con colpi di arma da fuoco il giorno dopo la scomparsa. Era il 18 gennaio 2019.
Isabel Cabanillas davanti al murale a cui stava lavorando il giorno della sua scomparsa © Lidia Graco |
In Messico i crimini contro le donne sono un’altra pandemia
Humberto Robles è il drammaturgo messicano autore di Donne di sabbia, lo spettacolo teatrale che raccoglie le testimonianze delle donne di Ciudad Juarez, arrivato in 21 paesi del mondo, con oltre 70 repliche solo in Italia. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente perché, oltre ad essere uno dei portavoce, è l’unico uomo a collaborare, da circa vent’anni ormai, con Nuestra Hijas de regreso a casa, il movimento sociale che sostiene le donne nella loro lotta quotidiana per la giustizia.
“Purtroppo non posso che confermare interamente quanto documentato da Amnesty”, commenta Robles. “Per anni il Messico ha praticato una politica schizofrenica, firmando tutti i trattati internazionali, ma senza applicare le leggi nel paese. Oltre al “campo algodonero”, un altro caso emblematico è quello delle “donne di Atenco” violentate e torturate dai membri della polizia nel maggio del 2006 a San Salvador Atenco, nello stato del Messico. Crimini che nel 2018 sono costati al paese un’altra condanna da parte della Corte interamericana dei diritti umani, ma solo dopo lunghi anni di calvario tra vari processi penali; di questi solo uno arrivato alla conclusione e con sentenza di assoluzione.
La violenza contro le donne nel teatro e nella danza
“Non esiste la volontà politica di porre fine ai crimini contro le donne, che sono un’altra pandemia”, aggiunge Robles. “Non c’è nemmeno la volontà di prevenire la violenza di genere in tutti i settori; alcuni sforzi sono stati fatti, ma sono minimi. Penso ad esempio al teatro e alla danza, ambiti artistici dove gli abusi, le violenze e le vessazioni continuano ad essere denunciati, ma le autorità non agiscono come dovrebbero, lasciando impunti insegnanti e studenti, che continuano a perpetrare questi crimini”.
Chiediamo a Robles perché, secondo lui, nel movimento sociale in cui opera non ci sono altri uomini. Dove sono i padri e i fratelli delle vittime. “È un fenomeno interessante, ma anche molto diffuso”, risponde lui. “Pensiamo alle nonne di plaza de Mayo, in Argentina, che cercano di riportare a casa i bambini fatti sparire dalla dittatura. Credo che gli uomini non siano in grado di affrontare tutto questo, mi riferisco al lutto, al crimine compiuto, al sistema. In molti casi poi, dopo un caso di femminicidio, i mariti scelgono di andarsene, lasciando moglie e figli. Probabilmente non riescono a sostenere un tale dolore. Le donne sono più forti”.